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COME SI MANIFESTA LA VIOLENZA DI GENERE?

7 Dicembre 2024

E’ ancora molto diffusa l’idea che la violenza di genere si manifesti “solo” con i femminicidi, gli stupri, il revenge porn e lo stalking.

In realtà questi reati sono le più gravi espressioni della violenza di genere, ma si parte da una cultura di base che fomenta nell’inconscio collettivo varii tipi di violenza quotidiana (ne avevo parlato anche qui https://avvsarabattistini.it/attualita/la-cultura-dello-stupro/).

La violenza di genere si può riconoscere ogni giorno in tante piccole circostanze, anche in dettagli che apparentemente sembrano di poco conto, ma che portano a quella concezione dei generi non paritaria, che si definisce – come ormai sappiamo tutti (o almeno lo spero) -PATRIARCATO.

Riporto un esempio per chiarire ciò che intendo.

Nei giorni scorsi ho guardato una puntata di Un giorno in pretura: si trattava del processo ad un uomo che ha ucciso una donna (non importa specificare quale fosse in particolare il caso giudiziario, perchè la mia riflessione vale purtroppo per qualunque puntata).


Tutti chiamavano la donna assassinata per nome.

Tutti chiamavano l’imputato per cognome.


Tutti facevano lo stesso “errore”, formalmente microscopico ma sostanzialmente macroscopico: la pubblico ministero, gli avvocati, le avvocate, l’imputato, i testimoni, la presidente della Corte di assise e naturalmente anche la giornalista che presentava il processo.

Tutti, sia uomini che donne, pur essendo istruiti, preparati, sicuramente anche femministi (almeno nelle intenzioni), quando parlavano dell’assassino dicevano il suo cognome e quando parlavano della vittima usavano solo il suo nome.

Anche questa è violenza di genere, non consapevole, non evidente, ma ugualmente pervasiva, perchè condizionata e condizionante.

Sono certa che per molti non ci sia alcuna violenza nel chiamare una sconosciuta per nome, anzi magari pare un modo per sentirsi più vicini e premurosi, soprattutto nei confronti di chi ha subito un reato, ma non è così.

Perchè chiamare con il nome di battesimo crea una confidenza inopportuna, non giustificata, non legittima, se non consentita dalla persona stessa: e qui la donna era morta, quindi non poteva decidere se accettare o meno questa familiarità.

Quando si chiama qualcuno per nome, si accorcia la distanza simbolica con il nostro interlocutore: infatti si fa solitamente quando ci si dà del tu.


In un ambito formale e tanto più giudiziario, è gravissimo chiamare una donna per nome, perché equivale a privarla della sua piena identità: si crea di fatto uno squilibrio tra chi è chiamato per cognome, in segno di rispetto, e chi invece è chiamato per nome, in ottica paternalistica e fondamentalmente patriarcale.

Dopo tanti, tantissimi discorsi su come evitare la violenza sulle donne, mi sento di suggerire un umilissimo primo passo: partire dal linguaggio, imparare a chiamare le donne con il loro cognome, con i loro titoli professionali declinati al femminile, definendole “signore” anche se fanno sesso a pagamento, così come viene chiamato “signore” pure chi le uccide.


Parlare in modo paritario significa pensare in modo paritario: imparare a chiamare le persone in modo diverso da come si è abituati a fare richiede infatti uno sforzo mentale, che è appunto ciò che fa la differenza.
Solo così si interiorizza il nuovo concetto semantico; e solo se ogni singola persona comincia a cambiare da dentro, può poi portare all’esterno un contributo per il cambiamento concreto della società.

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